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GOVORIT MOSKVA: IL MIO VIAGGIO NELLA GRANDE MADRE RUSSIA /1

Dopo alcuni post introspettivi e di vita vissuta, oggi inauguro la categoria VIAGGI: i viaggi che ho fatto, che sto facendo e che programmerò di fare.

Voglio iniziare subito subito col botto e sfoderare il mio asso nella manica, quello che fa sempre colpo su tutti alla prima conversazione: il mio viaggio nella Grande Madre Russia.

Ho intrapreso questo viaggio in una delle fasi più belle della mia vita, quella universitaria. Un periodo magico che mi ha portata lontana da casa a 19 anni, a imparare a fare il caffè con la moka e il sugo al pomodoro, ad adattarmi alla convivenza con estranei (a volte preoccupanti), a conoscere gente la cui serata tipo consiste nel riunirsi in cucina per azzannarsi su questioni come “cause ed effetti della Guerra dei 30 Anni”.
Quel periodo in cui mi è capitato di sentirmi infinitamente sola, ma anche incredibilmente fiera di me.
Nel corso degli studi tre mesetti li ho passati a Mosca, sperando di apprendere quel russo che mi faceva sgobbare sui libri da anni con scarsi risultati. Dovevo assolutamente partire: immergermi in quella società, sentirne gli odori, vederne le piccolezze a cui nessuno bada, sentirmi ebete davanti a chi mi avrebbe parlato senza che io capissi nulla, almeno finchè non fossi stata in grado di rispondere in modo un pochino sensato. E così feci: dopo una prima, fugace vacanza studio, tanto per tastare il terreno nemico, decisi che questi tre mesi a Mosca sarebbero stati il mio personalissimo Erasmus.

Il mio soggiorno di studio a Mosca è stato una sfida continua con me stessa, a cominciare già dal pre-partenza: qui ho scoperto di reggere benissimo lo stress fino al giorno precedente un qualsiasi evento, per poi crollare miseramente a ridosso dell’ora X.
Ci abbiamo messo mesi io e la mia compagna di ventura (una studentessa di un anno più piccola di me) ad organizzare il tutto, tra visto, assicurazione e biglietto aereo, e io sono sempre rimasta lucida, convinta della mia decisione e relativamente tranquilla. Poi, il giorno della partenza per Milano, il crollo: dal momento della sveglia non riuscii a smettere di piangere per più di 15 minuti consecutivi, e andai avanti così finchè non arrivai in treno a metà tra Pisa (dove studiavo) e Milano (dove mi sarei imbarcata).
Piangevo perchè avevo paura, una paura tremenda di tutto (o meglio, dell’ignoto), e in più ero disperata al pensiero che per tre mesi non avrei avuto il mio allora ragazzo vicino, a sostenermi in ogni cosa. Stavo per ritrovarmi sola (in fondo anche la ragazza con cui sarei partita era una totale estranea), in un Paese che non fa neanche parte dell’UE, di cui non soltanto non parlavo ma neppure capivo la lingua, di cui non sapevo praticamente nulla se non che sarebbe stato gelido e pieno di neve, tanto da avere la splendida idea di farmi tutto il viaggio tra Milano e Mosca coi DOPOSCII ai piedi (no, non è un’iperbole!). Con l’unica certezza che mi sarebbe mancata tanto la pasta.

Però, nonostante il nodo in gola, gli occhi gonfi e l’angoscia nel salutare il mio amato pronta alla più lunga sospensione che la nostra relazione avesse mai affrontato, sono partita: la mia determinazione è sempre stata più forte di ogni ansia e insicurezza, per mia fortuna.

Arrivata a Milano a casa della mia compagnuccia, che era ovviamente in gambissima, la famiglia si è subito preoccupata di confermare il mio sospetto di essere una bamboccia inadeguata al viaggio che mi aspettava:

–          Ma come non sai il russo?…E allora come farai là???

“Eh, come farò… che cazzo ne so!” Avrei voluto e dovuto rispondere. Invece risposi con un sardonico e al contempo timorosissimo “Eh…imparerò!”, perché nonostante la gente si comporti da stronza con me io cerco di restare sempre e comunque educata, soprattutto con chi è più adulto (per non dire vecchio).

Insomma, le premesse erano abbastanza tese, e infatti passai una nottata terribile. A quella nottata seguì la sveglia prima dell’alba, i saluti, il check-in, l’attesa, e finalmente l’imbarco. Da lì ci aspettava un’oretta di volo fino a Londra, e poi altre due-tre orette fino a Mosca Domodedovo, dove un amico russo di Marghe ci avrebbe accolte e accompagnate fino al nostro alloggio studentesco.
Si, perché Marghe era una tipa infinitamente più scafata di me: lei il russo lo parlava e aveva già due amici russi a Mosca, studenti di italiano che aveva conosciuto grazie a uno scambio linguistico, e comunque era milanese di nascita, cosa che in un’esperienza simile le dava cinque marce in più rispetto a una timida provincialotta marchigiana come me. Ammetto che tutto questo facilitava anche la mia sopravvivenza, ma di fronte a un metro di paragone simile la mia autostima non poteva che scendere a livelli ancora più bassi del solito.

E così, dopo varie ore di viaggio e attesa, atterrammo in terra russa: era febbraio ed eravamo a Mosca, dove saremmo rimaste fino a metà maggio.
Il primo ricordo che ho dell’aereoporto è il grosso, enorme abbraccio tra Marghe e il suo amico, Vanja, come due fratelli che si ritrovano dopo un tempo apparso infinito a entrambi. “Io non ho mai abbracciato così nessuno che non mi abbia portata a letto”, pensai con invidia nei confronti di quell’affetto che a me, ragazzina insicura appena sbarcata in un Paese dove nessuno le avrebbe mai dato un abbraccio forte neanche la metà di quello, sembrava così sincero e disinteressato.
Dopo le dovute presentazioni (per mia fortuna in italiano, perché Vanja parlava italiano quasi meglio di me) ci infilammo in metro, direzione obschezhitie, cioè la casa dello studente (incredibile come, a distanza di anni, io ricordi perfettamente termini di uso comune incontrati in quei pochi mesi, mentre dai libri non sia mai riuscita a memorizzare una cippa!).

ABOUT MOSCOW

Mosca è la capitale più grande d’Europa (no, neanche io lo sapevo prima di andarci) e una delle città europee più costose. Non fatevi ingannare dall’idea che là la gente sia povera, e la vita costi meno, e che per noi occidentali sia una meta conveniente: tutte cazzate. La gente vive in appartamentini minuscoli che costano il doppio rispetto a quello che costerebbero in Italia a parità di dimensioni, e lo stesso discorso vale per la spesa al market sotto casa: a tot cifra riesci a comprare metà delle cose. La cibaria più costosa è senz’altro la frutta, e con frutta intendo mele e pere, non fragole e albicocche: ovvio, se vivi in un Paese coperto di neve da ottobre a maggio.

Parliamo subito del freddo: si, l’inverno a Mosca è fottutamente freddo, se guardiamo al termometro. Durante il mio soggiorno la punta minima raggiunta è stata -20°C più o meno, che solo a dirlo fa rabbrividire. Eppure, vi sorprenderò: io ho sofferto di più il freddo in certe notti di gennaio in Italia. Si tratta del famoso freddo secco, quello che si, ti congela il naso e ti trasforma il viso in una grattugia per quanto secca la pelle, ma se ti copri ben bene (con, nell’ordine: canottiera-maglia termica-pile-giacca a vento-sciarpa/cappello/guanti di lana) non tremi come una foglia per tutto il tempo che trascorri in giro. Il problema, casomai, è quando entri in un qualsiasi luogo chiuso e ti ritrovi improvvisamente a +25°C, con uno sbalzo termico degno delle aree desertiche. Università, alloggio, mensa, supermercato, biblioteca, locale in cui bere un chaj (cioè un the): ovunque entriate morirete di caldo, così bardati come siete, quindi preparatevi a denudarvi dei quattro strati che vi hanno protetti dal gelo esterno e a trasformarvi in una bancarella ambulante.

Altro habit locale che a me era totalmente ignoto: quando entrate in casa di qualcuno togliete le scarpe.
Io ho fatto una figura davvero meschina la prima sera trascorsa in terra straniera: Vanja ci invitò a cenare a casa di una sua amica che abitava poco lontano dal nostro obschezhitie. Dopo venti minuti di cammino in mezzo a ghiaccio e neve, nel buio della sera (sì, la concezione di distanza è un tantino allargata quando vivi nella capitale più grande d’Europa), entriamo in questo appartamentino angusto, arredato in stile anni ’80, con la moquette, e tutti si tolgono le scarpe.
Io avrei preferito morire che togliere i doposcii con cui nelle 12 ore precedenti avevo attraversato tre Paesi, tanto più al pensiero delle calze di lana color moka che avrei dovuto mostrare spavaldamente a dei completi estranei. Per evitarmi questa piccola umiliazione mi autoconvinsi che lo stavano facendo perchè erano tutti amici, ma io, da ospite, non ero mica tenuta a comportarmi come loro, anzi, sarebbe stato addirittura sconveniente…e così entrai nell’appartamentino coi doposcii bagnati di neve, gocciolando e lasciando impronte in ogni dove. Va da sè che, tornate in obschezhitie, Marghe mi apostrofò con un delicato “Non offenderti se te lo dico, ma NON FARLO MAI PIÙ”. E io delicatamente pensai: “Grazie mille stronza, potevi dirmelo prima invece di aspettare che ce ne andassimo”.

Da questo primo impatto capii come sarebbero andati i tre mesi successivi: pieni di timori, di disagio e in un costante confronto con un modello di mondeur metropolitana che mai avrei raggiunto.
Eppure ero euforica, neanche avessi assunto degli acidi: appena arrivate all’obschezhitie recuperammo chiavi della stanza, lenzuola, coperte (come se a 25 gradi costanti servissero) e la password del wifi, e tra le prime chiamate Skype che feci ci fu quella con mia madre, di cui ricordo solo che le parlavo ad una velocità e con un tono di voce insolitamente elevati causa botta di adrenalina ancora all’apice. Il che fu un bene, perchè sentire che non frignavo come una bimbetta la tranquillizzò: “Mia figlia ha le palle” avrà pensato… invece ero solo ingenua e incosciente.

 

“Aaaah, finalmente siamo alla conclusione!” starete pensando…

…invece no. Questa era solo la premessa.

A cui seguirà una bella lista dei PRO et CONTRA di questo mio soggiorno a Mosca: presto, molto presto. Giusto il tempo necessario a far riossigenare i vostri occhi stremati da questo post indecentemente lungo 🙂

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